Renzo De Felice: Rosso e Nero
Følgende tekst er hentet fra De Felices bog “Rosso e nero”, der udkom 1995. Renzo De Felice er en af de mest kendte (og omdiskuterede) fascisme-forskere i Italien.
”Primum Vivere” Fu l’imperativo Interiore…
Contrariamente a quanto ha sempre sostenuto la vulgata filoresistenziale, sopratutto comunista, non è possibile considerare la Resistenza un movimento popolare di massa: il movimento partigiano si fece moltitudine pochi giorni prima della capitolazione tedesca, quando bastava un fazzoletto rosso al collo per sentirsi combattente e sfilare con i vincitori.
All’indomani dell’8 settembre ci fu, tra la maggioranza degli italiani, un atteggiamento di sostanziale estraneità, se non di rifiuto, sia nei confronti della Rsi che della Resistenza. Nonostante il distacco dal fascismo, l’ostilità e financo l’odio per il nazista invasore non fecero scattare la scelta alternativa di schierarsi con il movimento partigiano. La ragione ultima è che non si trattò di un atteggiamento politico: primum vivere fu l’imperativo interiore della gente. Sparire, rinchiudersi nel proprio guscio, non compromettersi con nessuna delle parti in lotta, sperare in una rapida fine della guerra, furono le regole principali, seguite dai più, per tentare di attraversare il dramma in corso col minimo di danni e sacrifici.
Il mondo contadino per esempio, che in principio si era prodigato nell’aiuto ai militari sbandati, ai soldati scampati, ai prigionieri Alleati evasi, che ben presto si era fatto diffidente e avaro anche di umana solidarietà, elaborò una vera e propria “strategia di sopravvivenza”. Per tutto il biennio ’43-45 attuò una forma di “resistenza attesista” senza mai prendere posizione né per i fascisti, né per i tedeschi, né per i partigiani: tre realtà estranee alla cultura paesana e alle sue secolari radici. Essere amico di tutti senza aiutare nessuno era il modo migliore per difendersi, sfruttando le contingenze più desparate. Fu frequente il caso di grosse famiglie contadine che, per cautelarsi meglio, avevano sapientemente deciso di mandare un figlio con i partigiani e l’altro con i fascisti. In forme diverse lo stesso atteggiamento pervase le popolazioni di città.
Nella documentazione raccolta dagli uffici per la censura postale del Sid, il servizio informazioni di Salò, si retrovano le tracce dello stato d’animo collettivo: un diffuso sentimento di genuina avversione per i fascisti e i tedischi, ma anche di sincera paura per lo sviluppo sanguinoso della lotta armata e per l’incrudelirsi della guerra civile. Una classifica delle preoccupazioni vede al primo posto la sopravvivenza. Specularmente, fra le aspettative, in cima c’è il desiderio di pace. Qualsiasi pace! Preoccupa la situazione economica, lo squilibrio fra salario e costo della vita, la penuria di generi alimentari e medicine. Tutto il resto, a onta dei più elementari valori civili e politici che sono stati alla base della Resistenza, passa in second’ordine davanti agli assilli quotidiani.
Si era creato un circolo vizioso: tutti volevano la fine della guerra, tutti erano ostili ai fascisti e ai tedeschi ché si ostinavano a continuarla, ma nessuno, per non peggiorare la personale condizione, se la sentiva di mettersi apertamente contro per accelerarne la sconfitta. Si capì presto quanto pesante fosse il clima dell’epoca: l’estrema lentezza dell’avanzata anglo-americana, le efferate violenze delle prime bande fasciste nelle grandi città, da Pietro Koch a Mario Carità, le scorribande delle prime formazioni saloine nelle campagne contro antifascisti notori, l’azione dei primi nuclei badogliani, la comparsa delle bande dei “banditi” e dei “ribelli” (per usare la terminologia dei documenti interni di Salò), chiarirono quanto fossero vane le iniziali speranze di farla finita presto.
Lo stato D’animo collettivo riscrive la storia
Le contrapposte vulgate, resistenziale e neofascista, hanno fino a oggi impedito, per la loro natura ontologicamente ideologica, l’analisi della evoluzione dello stato d’animo collettivo. Tanto più che fu assai mutevole nel corso del tempo e assunse caratteri particolari in funzione della geografia, della cultura e delle tradizioni locali, politiche e religiose: al Nord fu diverso che al Sud, per i ricchi fu diverso che per i poveri, per gli operai fu diverso che per gli impiegati...
La gran massa degli italiani, sebbene pochi furono coloro che riuscirono a non essere coinvolti, non solo evitò di prendere una chiara posizione per la Resistenza, ma si guardò bene dallo schierarsi a favore della Rsi. E così facendo fornì al movimento partigiano, oltre a un buon numero di combattenti anche il contesto favorevole per vivere e svilupparsi: una grande zona grigia composta da quanti riuscirono a sopravvivere tra due fuochi, impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti, dalla borghesia alla classe operaia. Non credo sia giusto parlare di opportunismo. Preferisco il concetto di opportunità: ciascuna scelta fu vissuta come mera necessità, come male minore per allontanare le situazioni troppo rischiose o almeno rinviarle nel tempo.
Il famoso “bando Graziani” del 19 febbraio 1944 si abbatté come una maledizione sulla zona grigia dell’attesismo civile. La chiamata di leva e il richiamo alle armi decretato dalla Rsi fu il grande crocevia etico-politico. Un dramma per che la visse. Un buco storico per chi non si accontenta delle contrastanti e approssimative versioni e valutazioni della vulgata fascista e antifascista. Su un punto non ci può essere discussione: il tasso di renitenza, quasi il 41 per cento, e di diserzione, il 12 per cento, fu assai elevato. Un bruciante scacco per la Rsi e, contemporaneamente, un grosso successo politico-propagandistico per la Resistenza. Il movimento partigiano proprio nei mesi in cui la renitenza fu più vasta, fra il novembre del 1943 e l’aprile del 1944, trovò nuova linfa vitale aumentando il numero dei combattenti e la misura dei consensi.
Per comprendere l’atteggiamento di tanti giovani non si può generalizzare la scelta di campo antifascista, ché riguardò solo una minoranza e fu determinata dalla concreta prospettiva di doversi in ogni caso arruolare. Non è un caso se nelle regioni più vicine al fronte e alla “liberazione”, l’arruolamento fu minimo. Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica cittá in cui si era tentata la resistenza armata conto i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi e edifici dove i renitenti potevano nascondersi. Al primo posto ci fu la “difesa di se stessi”, sia da parte di chi rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il vizio d’origine di una scelta opportunistica.
Nei racconti dei protagonisti, il dramma vissuto dagli italiani fra l’8 settembre e il 25 aprile, è stato sfigurato da una storiografia che ha ridotto la Resistenza a oggetto di culto. È stata invece una pagina fondamentale della storia d’Italia che bisogna studiare, con l’etica della scienza, per capire il danno alla moralità nazionale consumato in quel biennio e le ragioni della mancata ricostituzione di quel tessuto morale andato perduto.
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Il movimento partigiano e il fascismo repubblicano sorsero spontaneamente, sulla spinta di nuclei politicamente motivati, reciprocamente indipendenti. Per gli altri la scelta fu casuale: in base a rapporti personali, in funzione di stati d’animo elementari, a causa di situazioni familiari, come reazione a frustrazioni personali, nel bel mezzo di una grande confusione di idee... Nacquero, vale la pena ribadirlo ancora, fra la diffidenza generale, fra gente che faceva poca differenza fra il rosso e il nero, che all’atto pratico non distingueva granché fra tedeschi e anglo-americani, che sopratutto non riusciva a capire come mai ci fosse ancora qualcuno ostinatamente disposto a combattere. Gente intimorita dalla consapevolezza di dover pagare il prezzo di una lotta che sentiva profondamente estranea, pronta a qualsiasi conversione, spesso sincera quanto opportunistica, disposta a vestire i panni di chi sembrava di volta in volta più forte e quindi più pericoloso.